Il dialetto spezzino (nome nativo dialèto spezin /speˈziŋ/) è varietà ligure della varietà urbana della Spezia. Presso alcune frazioni del territorio comunale, come Marola, Cadimare, si usano termini più specifici: marolino, cadamoto; ma le differenze tra le parlate sono minimamente percettibili.
Spezzino Spezin | |
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Parlato in | Italia |
Regioni | Liguria |
Locutori | |
Totale | <30.000 |
Classifica | Non in top 100 |
Tassonomia | |
Filogenesi | Indoeuropee Italiche Romanze Italo-occidentali Occidentali Galloiberiche Galloromanze Galloitaliche Lingua ligure Dialetto spezzino |
Statuto ufficiale | |
Ufficiale in | Provincia della Spezia (IT) |
Regolato da | Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Capellini (non ufficiale) |
Codici di classificazione | |
ISO 639-2 | lij
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Manuale |
Pur distinguendosi sia dal genovese che dai dialetti della limitrofa Lunigiana, ha comunque importanti punti di contatto con entrambi. Particolare per la sua cantilena, e per una propria fonologia, che risente dell'influenza toscana ed emiliana. Numerose sono le varianti fonetiche, essenzialmente riconducibili alle zone geografiche distinte del territorio: il dialetto risente fortemente delle influenze genovesi sulla riviera e nella parte alta della Val di Vara, a Sarzana e a La Spezia digrada nel tipo lunigianese, e si caratterizza per tratti comuni condivisi soprattutto con l'emiliano,[1] mentre è intriso di toscanismi nella bassa Val di Magra.
Un recente studio dell'Accademia Lunigianese di Scienze Giovanni Capellini ha evidenziato la matrice quasi esclusivamente lunigianese del dialetto spezzino.
Sono numerose le parole di origine straniera: soprattutto dal francese, dallo spagnolo, dal portoghese.
L'area del dialetto spezzino comprende gran parte dell'area urbana della città e del suo territorio comunale (ad esclusione della frazione di Pitelli, che ha un proprio dialetto fortemente influenzato dalla parlata di Arcola) e i comuni del settore interno del golfo della Spezia, dove presenta significative, ma non essenziali, varianti di tipo fonetico e lessicale.
Considerando invece l'intero territorio della provincia della Spezia si nota come lo spezzino lasci spazio gradualmente a varianti specifiche da comune a comune e talvolta anche da frazione a frazione.
Nelle parti più esterne della provincia i dialetti non appartengono più alla tipologia dello spezzino, ma rientrano o in quella genovese (ad esempio il "genovese" parlato a Deiva Marina, Varese Ligure, Maissana e Carro) o addirittura si collocano ai margini della dialettologia ligure, assumendo caratteri sintattici e ortofonetici che li avvicinano maggiormente ai dialetti emiliani; tra queste parlate di tipo lunigianese, che vanno cioè a raccordarsi con quelle dell'area apuano-lunigianese, si possono citare quelle di Ortonovo, Castelnuovo, Sarzana[2], Ameglia, Arcola, Lerici, Santo Stefano Magra, Bolano, Follo, Calice al Cornoviglio[3] che, seppure diverse tra loro, presentano sia influenze lessicali liguri e emiliane, sia un forte sostrato fonetico e grammaticale di tipo apuano e lunigianese; conformemente alla sua posizione di "cerniera" tra la Val di Magra e il Golfo, il dialetto di Vezzano Ligure si pone invece in posizione intermedia tra il dialetto spezzino e quelli lunigianesi. Infatti l'area anticamente, assieme all'attuale provincia di Massa-Carrara costituiva il territorio degli apuani (fino a Bonassola), e per tanto la maggior parte della provincia di Spezia un tempo ha fatto parte della Lunigiana storica, cui in seguito si è allontanata, con l'annessione allo stato genovese.
Va infine citata anche l'area che dalle Cinque Terre giunge a Levanto e Bonassola, nella quale le parlate locali presentano alcune affinità con quelle dell'area del Tigullio orientale (e quindi con quelle di tipo "genovesizzante" parlate a Lavagna e Chiavari) ma presentano elementi conservativi non solamente genovesi dal punto di vista lessicale e fonetico (p. es. levantese e bonassolese veciu, spezzino vecio, genovese vegio pronunciato vegiu). Caratteristiche simili a quest'area ha pure la Val di Vara in cui si osserva un sempre maggior stadio di "genovesizzazione" a mano a mano che si risale il fiume.
Per via della notevole immigrazione tra fine Ottocento e inizio Novecento e dell'insegnamento nel dopoguerra dell'italiano con metodi che di fatto mortificavano il dialetto, oggi lo spezzino è parlato pochissimo. Sopravvivono in modo diffuso solo alcune espressioni di uso quotidiano.
Scriveva Ubaldo Mazzini già nel 1889: "[...] in pochi anni la popolazione della Spezia si è più che triplicata per elementi nuovi venuti da ogni parte d'Italia, tal che si è fatta una confusione di linguaggio incredibile, e il dialetto antico va man mano modificandosi, finché un giorno si perderà del tutto."
Negli anni che seguirono il faticoso periodo della ricostruzione, quando Spezia poté dedicarsi nuovamente allo studio e alla divulgazione del proprio dialetto, affinché non andasse perduta una tradizione radicata e sentita, furono organizzati concorsi e premi letterari di poesia in vernacolo, denominati "Béla Speza" o "Vécia Speza" che, con la costante presenza di illustri cittadini, quali Augusto Ambrosi, Ferruccio Battolini, Franco Marmori, Bruno Ferdeghini, e molti altri, rivestirono un grande significato socio-culturale, grazie alla tenace ed infaticabile opera di Eugenio Giovando e del suo inseparabile collaboratore, il colto studioso Piergiorgio Cavallini. Tra i poeti dialettali che parteciparono a questi concorsi di poesia in vernacolo possiamo qui ricordare Tino Barsotti, Livio Sisti, Maria Trenta, Sergio Rezzaghi, Teofilo di Rosa, Alberto Vaccarezza e Amedeo Ricco, filologo attento ed ultimo grande classico della poesia dialettale spezzina, vincitore di uno tra i primi prestigiosi concorsi sul tema "Dàa Fòze".
ln spezzino le consonanti sono sempre scempie. La doppia "m" dell'italiano corrisponde in spezzino a "nm", come in enmaginae (immaginare), o a "rm" come in armiralio (ammiraglio). Il nesso italiano "bi" corrisponde in spezzino a "gi" come in gianco (bianco). A sua volta il nesso "bb" corrisponde a "g" come in gàgia (gabbia). Il nesso "pi" ha spesso corrispondenza in "ci" come in "ciù" (più) o "ciassa" (piazza). I nessi "mb" e "mp" corrispondono a "nb" e "np", come in canpana (campana). Il nesso latino "pi", diventa "c" dolce, come in cian (piano), cén (pieno). La "r" cade quando compresa tra due vocali come in amoe (amore) o in Caraa (Carrara); presenta inoltre il fenomeno della metatesi come in drento (dentro) o in presempio (per esempio). Simile il discorso per la "l" che cade tra vocali, come in aa (ala) soela (sorella).
Italiano | Francese | Ligure (Spezzino) | Ligure (Genovese) |
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Bambino | Enfant | Fante (figio) | Figeu |
Bambina/Ragazza | Fille | Fantèla (figia) | Fìggia |
Madre | Mère | Mae | Moæ |
Padre | Père | Pae | Poæ |
Fratello | Frère | Frè | Fræ |
Sorella | Sœur | Soela | Seu |
Lavorare | Travailler | Travagiae | Travagiâ |
Mela | Pomme | Pomo | Méi/Pommo |
Carciofo | Artichaut | Articiòco | Articiòcca |
Branzino (nord)
Spigola (sud) |
Loup de mer
(lett. lupo di mare) |
Lovasso
(lett. lupaccio) |
Luassu |
Muscoli (nord)
Cozze (sud) |
Moules | Muscoli | Móscolo |
Aperto | Ouvert | Averto | Avèrto |
Lucertola | Lézard | Léssoa | Grîgoa |
Pipistrello | Chauve-souris
(lett. topo senza peli) |
Rato penùo
(lett. topo pennuto) |
Ràtto penûgo
(lett. topo pennuto) |
Liquirizia | Réglisse | Recagnisso | Regolìçia/Recanìsso |
L'ortografia dello spezzino non è mai stata ufficialmente determinata e possono esserci variazioni a seconda del periodo, a seconda dell'autore e della zona del Golfo. La tradizione ci lascia comunque dei punti di riferimento.
Non ci sono doppie, unica eccezione: la "s", che appare scritta in parole come assassin (assassino), nissoe (nocciole), colisse (rotaie), per sottolineare la pronuncia sibilante. Manca del tutto il suono della "z" come nell'italiano "balzo" o "Firenze". Al suo posto si usa la "s" di "sole"; ad es. pasiensa per "pazienza", esistensa per "esistenza". La "s" dolce può esser scritta con z o con s. È quasi sempre indifferente: gese o geze per "chiesa", ma si usa z in Speza, Lerze, Riomazoe per "Spezia", "Lerici", "Riomaggiore". Il suono italiano del gruppo "sci", "sce" non esiste e viene pronunciato disgiunto e scritto s-c o sc-c come in mes-ciüa (o mesc-ciüa). La "o" può avere suono aperto, chiuso o turbato. In quest'ultimo caso ha una pronuncia intermedia tra la "o" e la "u". In aggiunta lo spezzino ha il suono e il carattere ü come in francese o in tedesco. Tutti i rimanenti suoni si pronunciano e si scrivono come quelli italiani. È tipico del dialetto spezzino l’uso di “da” con valore di stato in luogo. Tale uso è antichissimo, attestato già in Dante e Petrarca e anche letteratura precedente. Ad esempio: in dialetto spezzino “ci vediamo dal palazzetto” anziché in italiano “ci vediamo al palazzetto”
L'articolo determinativo femminile è "a". Per sostantivi femminili e maschili comincianti per vocale si usa "l" (con apostrofo o senza, a seconda delle trascrizioni). L'articolo determinativo maschile "er" si usa di fronte a parole che iniziano per b, c (velare), f, g (velare), m, p, q, v. Per tutti gli altri sostantivi maschili si usa "o".
L'articolo indeterminativo singolare per i nomi che iniziano per consonante è "ün" (spesso modificato in "én") al maschile e "üna" (spesso modificato in "na") al femminile. Per i nomi che iniziano per vocale l'articolo indeterminativo è sempre "'n'" indipendentemente dal genere. Per il plurale si usano invece le forme partitive "de" e "di".
Esistono alcune favole tipiche in spezzino. Iniziano spesso con la formula
Dunca, cos'a a voré 'n veità, na vota la gh'ea...
(Dunque, che volete [che vi dica] in verità, una volta c'era...) e si chiudono a volte con
Foa 'n sa, foa 'n là,
A me foa la se n'è andà.
(Favola in qua, favola in là,/ la mia favola se n'è andata.)
Dopo il lieto fine, invece, la formula di chiusura è diversa:
I feno 'n beo pranso grande e grosso,
Me a eo sotto a toa e i m'han cacià n' osso
Ch'i m'è arestà zü per er canoosso.
Toca un po' chi com'a gh'ho grosso!
(Fecero un pranzo grande e grosso/io ero sotto la tavola e mi hanno tirato un osso/ che mi è rimasto giù per la gola/ tocca un po' qui come è grosso!) Finita l'ultima frase il narratore spinge la lingua contro la guancia in modo da creare un rigonfiamento e il bambino che ascolta fa per toccarlo, come la mano è abbastanza vicina il narratore finge di mangiargli le dita e dice "ham!"
"La vecchietta e il berretto" è una storiella, impostata come un esercizio mnemonico, che ripercorre tutti gli elementi necessari per fare il pane. Il Mazzini la definisce come la più tipica e originale del repertorio spezzino.
Una vecchietta prende il berretto del narratore/protagonista e dice "A te dago a bereta, se te me dè de pan." (ti do il berretto se mi dai del pane). Ma il forno non ha pane e si percorrono a ritroso tutti i passaggi della produzione: prima in cerca della pasta, poi della faìna (farina), il gran (grano), a grassina (concime), le giande (ghiande), o sèro (cerro), il vento, er mae (mare). E poi, ottenuto il vento dal mare, di nuovo tutti i passaggi sino al forno. Finisce con lo scambio: il pane alla veceta e il berretto al proprietario.
"La favola delle tre gallinette" ricorda nella sua seconda parte quella dei tre porcellini, con varianti piuttosto "pulp".
Tre gallinette (Giancheta, Rosseta, Negreta) assaggiano troppo spesso il riso che stanno cucinando sino a mangiarlo tutto. Preoccupate della reazione del padre decidono di lasciargli una zuppa e di andare in giro per il mondo. Dopo un'estenuante camminata vengono sorprese dalla pioggia e si mettono a piangere. Ma ecco che arriva un gallo, che decide di aiutarle costruendo per loro una casa. Ma Giancheta entra per vedere come ci si sta e si trova così bene che non apre più alle sorelle. Di nuovo pianti. Ma arriva un altro gallo che fa una nuova casa. Questa volta è Rosseta che lascia fuori l'ultima sorella. Ancora pianti e ancora un gallo che costruisce la terza casa, più solida, e anche Negreta è sistemata. Ecco che passa o luvo (il lupo), si ferma dalla prima casa, bussa e si presenta come il padre. Ma la gallina capisce subito l'inganno e non apre. O luvo minaccia di demolire la casa con un peto; la gallina è incredula "Mah, se t'ei bon falo!" (Se sei capace, fallo!). E il lupo lo fa e se la mangia. Stessa sorte per la seconda gaineta. Alla terza, come o luvo minaccia la distruzione della casetta col suo originale metodo, la gallina Negreta mette un chiodo bello lungo ad arroventare sul fuoco e prende tempo "Spèta 'n momento che t'arèvo" (Aspetta un momento che ti apro). Poi si avvicina alla porta e trova il lupo che ha sovrapposto il suo orifizio al buco della serratura. Allora ci infila il chiodo e lo ammazza, poi esce, apre il lupo, ne estrae le due sorelle e le accoglie a vivere con sé.
I feno 'n beo pranso grande e grosso... ecc.
Lerse (Lerici) (la s è viene pronunciata mista tra una s ed una z)
Una filastrocca cantata dai nonni di Lerici:
La me là cuntà me nono en te na giornà de soe, asetà n'te na panchina a redoso der muagion;
dopo avè cargà a se pipa, aveghe ato doe tià, m'ha mià drito n'ti oci e così gia encomensà:
-o me Lerse te sen belo con a luna e quei puntin, te me pai na perla vea tempestà de diamantin!!!
con er sole e o te castelo te me fé restà encantà, o me Lerse te sen belo, te me pai na rarietà!!!
Me l'ha raccontata mio nonno in una giornata di sole, seduto su una panchina a ridosso del muraglione (muro);
dopo aver caricato la sua pipa, avergli dato due tirate, mi ha guardato dritto negli occhi e così ha cominciato:
O mia Lerici sei bella con la luna e qui puntini (stelle), mi sembri una perla vera (vea) tempestata di diamantini!!!
con il sole il tuo castello mi fa rimanere incantato, o mia Lerici sei bella, mi sembri (pai=sembri) una rarietà!!!
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